Un altare per Gea

Un Altare per Gea.

Un Altare per Gea.

Fiorella Corsi e la Grande Madre
by Adele Cambria

Sicily was the earth of feminine divinities, as were the Egean Islands, the Cyclades, Sardinia and the whole mediterranean area in addition to other nearby areas from the Lybian Amazons to the thousands ex-voto. Abundant and pacified headless women’s bodies were exposed in the extraordinary 1980 Istanbul exhibition titled “Ten thousands years of art in Anatolia”. (It seems that the archaic mothers either gave thanks to godesses for their own fertility or implored them to have it, each mother molding her own clay figure, bringing it to mirrorless sanctuaries, not even bronze ones, so as not to look at them and thus preventing representation of their faces.  On the contrary they knew quite well their own opulent, providential, maternal body…).
At any rate, Antonio Preti’s idea to dedicate the “Beauty Door of Librino” (Catania) to the Great Mother must have been generated in this Siciliam Maecenas spontaneously: the pre-eminent Great Mother, i.e. Demetra, is an integral part of the Sicilian Myth; it is on the banks of the Sicilian lake of Pergusa (obscenely surrounded by a cement ring and sucked by pumps of villas built illegally) that Ade, the King of Hell, emerged with his black eye to ravish the adolescent Core to her mother Demetra…

Robert Graves wrote in his “Greek Myth”: “Demetra sought Core for nine days, without eating nor drinking, invoking continuously her name…She was so furious that instead of re-ascending  Olympus, she continued to wander on the earth, impeding trees to produce fruits and herbs to grow, so that humankind could die… The goddess swore that Earth would remain sterile until Core’ restitution”.

Fiorella Corsi’s Great Mother, maybe one of the most efficacious and mysterious terra cotta of the Beauty Door, is inspired – differently from full bodied/corporeal mothers of the primordial Anatolia – by monolithic votive Sardinian mothers, “the island, says  the artist, is where it still survives as a matriarchal culture”, and she is capable of conjuring the sacred, and in this case, severe element of the maternity with the Beauty Door in its entirety (the two bosoms are two little sharpened volcanos, the vagina becomes a deep furrow sprayed of reddish oxide, the head being a planet which is an almost polemic answer to the absence of heads in archaic ex-votos). In fact, says Fiorella, the “Entrance Door of a City” represented at the origins of history, a sacred place where wayfarers found the protective divinities whom they brought their offerings to.

Fiorella, a petite, refined, and enchanting woman, who manipulates clay so naturally as if home making bread, but with an incredible strength and energy in such a fragile looking person, had the perception of the success of her work, an imposing 50 square meter bas-relief, when, she says, “the workers, while setting the work on the wall under my supervision, with sunny or rainy days indifferently, called Antonio Presti and told him: – this work, apparently so simple, contains as a whole, fecundity, nature, rock… It seems so light, but moreover severely beaten, it would never disappear. It would stand up, furrowed by cracks, but still imposing…

Fiorella adds: ”they understood everything, in fact the shivering of the clay is a leitmotiv of my sculpture”.

In presenting Fiorella Corsi’s exhibition titled “The Belly of Gea”, Toni Maraini noted that the body of Mother Earth, ”today  wrecked in the immense universe resets itself piece by piece as in a mosaic”, starting from  the Great Bosom, only one, which emerges from the wrinkles, like a cupola.

*  *  *

La Sicilia fu terra di divinità femminili – come lo furono del resto le isole Egee, le Cicladi, la Sardegna, e tutta l’area che racchiude il Mediterraneo o ne è poco lontana: dalle amazzoni libiche alle migliaia di ex voto – corpi abbondanti e pacificati di donne prive della testa, esposte nella straordinaria Mostra di Istanbul, 1983, intitolata “Diecimila anni di arte in Anatolia”. (Sembra che le madri arcaiche rendessero grazie alle Dee per la propria fertilità, o l’implorassero, modellando ciascuna in solitudine la propria figura nella creta per portarla ai santuari, e che non avessero specchi, nemmeno di bronzo, per guardarsi e quindi rappresentarsi pure nel volto; il proprio corpo opulento, provvidenziale, materno, invece lo conoscevano bene…).
Sia come sia, l’idea di Antonio Presti di dedicare la Porta della Bellezza di Librino (Catania) alla Grande Madre si deve essere generata, nel mecenate siciliano, spontaneamente: la Grande Madre per eccellenza, cioè Demetra, è incorporata nel mito della Sicilia; ed è sulle sponde del lago siciliano di Pergusa (oscenamente rinchiuso in un anello di cemento, su cui scorrono le gare automobilistiche, e risucchiato dalle idrovore delle ville abusive) che Ade, il re degli Inferi, emerge col suo nero cocchio per rubare la giovinetta Core alla madre Demetra…
“Demetra cercò Core per nove giorni e nove notti, senza mangiare né bere, invocando continuamente il suo nome… era così furibonda che invece di risalire sull’olimpo, continuò a vagare sulla terra, impedendo agli alberi di produrre frutti e alle erbe di crescere, tanto che la razza umana minacciava di perire… La Dea giurò che la terra sarebbe rimasta sterile finché Core non le fosse stata restituita…”
Così Robert Graves ne “I Miti Greci”.
La Grande Madre di Fiorella Corsi, forse una delle più efficaci e misteriose terracotte della Porta della Bellezza, si ispira – a differenza delle madri corpose/corporee della primordiale Anatolia – alla forma monolitica delle madri votive della Sardegna, ”l’isola – mi fa notare la scultrice – in cui sopravvive ancora oggi una cultura matriarcale”; e riesce a coniugare l’elemento sacro e, in questo caso, severo della maternità (i seni sono due piccoli vulcani appuntiti, la vagina diventa un profondo solco spruzzato di ossidi rossastri, e la testa è un pianeta che è quasi una risposta polemica con l’assenza di testa degli ex voto arcaici) contro quello della Porta. Infatti, spiega Fiorella, “la porta d’ingresso nella città ha rappresentato, all’origine della Storia, un luogo sacro, dove il viandante trovava ad attenderlo le divinità protettrici, a cui portava le sue offerte”. Fiorella, una donna minuta, raffinata ed incantata, che manipola le argille con la naturalezza di un impasto casalingo del pane, ma con una forza ed una energia incredibile in una persona dall’aspetto così fragile, ha avuto la percezione della riuscita della sua opera, un bassorilievo imponente di 50 mq. quando, mi racconta, “gli operai che la montavano sul muro, e che io ho sorvegliato per giorni e giorni sul cantiere, con la pioggia e col sole, rivolgendosi ad Antonio, gli hanno detto: – questa è un’opera così semplice ma contiene tutto: la fecondità, la natura, la roccia…. Sembra così leggera ma, anche a prenderla a martellate, non sparirebbe… Resterebbe così, solcata da crepe, ma ancora più imponente…”. E Fiorella conclude: “avevano capito tutto, la frantumazione delle argille infatti è un light-motive della mia scultura”.
Come notava infatti Toni Maraini, presentando la mostra di Fiorella Corsi, intitolata “Il ventre di Gea”, il corpo della Madre Terra, “oggi naufrago nell’immenso creato, si ricompone pezzo per pezzo come in un mosaico”, a partire dall’ampio seno, uno solo, che emerge dai frantumi, come una cupola.

Un Altare per Gea. 2

Un Altare per Gea. 2

Un Aquilone Arcaico
di Arianna di Genova

Non è facile rendere concreta l’idea di Grande Madre, dèa della terra che può generare e distruggere soltanto in virtù della sua forza apotropaica. Non lo è per diversi motivi, tutti afferenti alla sfera emotiva che, di fronte al «corpo» sovrastante di quella genitrice potente, tende al silenzio o alla fuga. Non è stato così invece per Fiorella Corsi, artista sempre coraggiosa se chiamata a sfide che preferisce «ciclopiche». Da Pinocchio (o meglio dal suo gigantesco naso che si erge in foreste simboliche dove nascondersi quando la verità si fa misteriosa) alla Grande Madre, Corsi scende sul sentiero della materia, la sua amatissima terracotta e fila dritta verso la mèta, sfoderando una tenace coerenza. La parola e la scrittura (anche il sillabare infantile, il balbettìo dell’inizio, il fuoriuscire di lettere dell’alfabeto che lentamente prendono forma conquistando un “senso”) “luoghi” dell’affabulazione da lei indagati negli anni della sua produzione, sembrano condurre alla vicinanza minacciosa con una figura mitologica, dall’esistenza millenaria. Eppure questo patto fra la scrittura sigillata nella terra e la fecondità materna (che insieme dà vita e la toglie a piacimento) non presenta nessuna cesura, né lacerazione di percorso. La Grande Madre – che si apre come un aquilone arcaico fagocitando, nel suo insaziabile appetito gravido di promesse future, porzioni di muro siciliano – è anch’essa «matrice» di mondi da plasmare e l’artista insiste su questa continuità filosofica fra ciò che a torto viene creduto primordiale e invece è «addomesticato» (o reso pauroso) dall’intelligenza femminile. Nonostante la «fisicità» evidente della materia scelta da Corsi, il corpo di quella dèa fuori misura si sgancia da qualsiasi peso gravitazionale e vola via, cercando altre altezze e negando il principio base di ogni scultura, il suo essere «a tutto tondo». La terracotta diventa poi oggetto/soggetto «intrattabile», superficie che s’increspa e accoglie su di sé i segni e le impronte della memoria. Le sculture di Fiorella non sono mai levigate, aspirano all’energia del “non finito” di michelangiolesca ascendenza: rendere patinata la pelle della Storia è una menzogna, un tradimento dell’arte e del suo ribollire viscerale. Alberi, tappeti di grafie incerte, tavolette vergini, pronte ad essere incise, melograni che spargono i loro enormi semi, in un rito che celebra il tempo delle stagioni umane, precedono la comparsa della Grande Madre di Fiorella Corsi. La sua è una cosmogonia della civiltà: genesi, ascesa e caduta. Per questo, la silhouette femminile che abbraccia il muro del cavalcavia siciliano affonda le sue radici in tutto il Novecento, ripassando fra le sue forme l’intera avventura delle avanguardie, impennandosi sui ready-made di Picasso così come sulle immagini stilizzate di Mirò e Arp. E alla fine, quella Grande Madre battuta giorno dopo giorno nella terracotta, rimane sospesa fra sacro e profano, in bilico fra una crocefissione pubblica e un’intimità oscena.

Un Altare per Gea. 3

Un Altare per Gea. 3

La dea sull’altare
di Rossana Dedola

Con i suoi sette metri di altezza, “L’altare votivo” di Fiorella Corsi si innalza imponente verso il cielo, ponendo al centro della devozione l’immagine della grande Dea, la prima divinità cui l’essere umano, sin dai primordi, si è rivolto facendo voti, implorando protezione e consolazione. La Dea della vita e della morte, colei che dà la vita a tutte le creature della terra, non solo agli uomini e alle donne, ma anche agli ani- mali, alle piante e ai minerali, e anche colei a cui tutte le creature ritornano in un movimento a spirale che continuamente si rinnova.
La forma, cui Fiorella Corsi ha dato corpo, riprende nella sua estrema stilizzazione le statuette dedicate dall’umanità alle Grandi Madri sin dal paleolitico, che con il loro diverso aspetto da quelle steatopigiche, come la Venere di Willendorf, a quelle a violino delle Cicladi e alle bellissime Madri della Sardegna e della Bulgaria, esprimono diversi significati simbolici indagati negli anni Novanta dalla grande archeologa lituana Marjia Gimbutas.
Sottolineandone la diversità stilistica, la Gimbutas aveva ricostruito il “linguaggio” della Dea, mettendo in evidenza il risalto dato alla prosperità del corpo femminile gravido, esagerato nelle sue rotondità, spesso accentuato con il ricorso alla lettera “V”, come simbolo del grembo femminile e divino, presente anche nelle statuette in cui le linee del corpo sono ridotte all’essenziale con i seni in rilievo, mentre le braccia si piegano in una perfetta geometria, formando due triangoli e suggerendo una figura cruciforme.
Nello straordinario monumento, che la Corsi dedica alla Dea, il corpo che dà la vita è esposto alla venerazione nella sua vastità, le spalle e le braccia, estremamente stilizzate, si confondono col resto della figura che si apre in un abbraccio protettivo come nelle rappresentazioni della Madonna del Mantello.
La testa della Dea si erge staccata dal corpo come una luna piena sull’orizzonte, rimandando al rapporto misterioso che da sempre collega il corpo femminile e la terra alla luna, astro femminile per eccellenza, che condiziona le nascite, i cicli femminili, i flussi e i riflussi delle maree.
Due grandi seni richiamano e ripetono la rotondità della testa, ponendo al centro il tema del primo nutrimento del nuovo nato, e del corpo materno fonte di vita, come la terra che è dispensatrice di cibo per l’umanità e tutti gli altri esseri che vi vivono.
Al centro della scultura un enorme segno nero, vulva o seme di vita, ripropone il tema dello strettissimo legame che esiste tra il corpo femminile e la Madre terra, piegandolo a una drammatica interpretazione. La superficie dell’imponente scultura è infatti attraversata da fenditure, incisa da profonde ferite, come se il corpo terrestre si fosse prosciugato, come se la sabbia del deserto si fosse di colpo consolidata o addirittura pietrificata, divenendo roccia durissima. Viene così sottolineato un altro significato simbolico della grande Madre, la roccia rimanda infatti alla capacità di resistere al trascorrere del tempo e ricorda, come accadeva ai nostri progenitori preistorici, che la Terra è la nostra unica sorgente di vita, di fronte alla quale occorre elevare una preghiera, un ringraziamento o lasciare un ex-voto.
Con il gigantismo della sua fortissima opera l’artista pare chiederci di inchinarci davanti alla sacralità della Dea e nello stesso tempo denuncia come la Terra sia ferita, riarsa, disseccata, ridotta allo stremo da uno sfruttamento senza limiti che ne sta esaurendo pericolosamente le risorse.

Un Altare per Gea. 4

Un Altare per Gea. 4


Gaea’s body – Il Corpo di Gea
by Toni Maraini

We can quote Hesiod’s “ Theogony “ to approach Gaea, “ample-breasted, solid and eternal” generatrix of Titans, Giants and Nymphs, and still more of human  kind. The powerful goddess, also known as Mother Earth, who “ gives birth to the immense starred sky “, to valleys, mountains, springs, to the sea and to the every germinal element, has slowly lost her glory throughout the passing of  centuries. Startling signs make us suppose that Gaea, just like us – perhaps because monsters and Erinyes are among her sons and daughters – is wrecking in the immense creation. The ample breast is shattering, the womb is becoming a simulacrum, the fruits are being petrified, her own waters are poisoning her. And yet Gaea remains an archetype, anchoring us to primeval Earth, to the gestation of life, to a bio cosmos where we long to consider her a reassuring guardian mother. As long as Art doesn’t dissipate the memory of Her, we won’t be orphans, we will not step on an indistinct something simply called “ground”.

Through a strongly physical perception of abstraction, Fiorella Corsi, a sensitive and daring sculptress, has chosen a path apt to evocate Gaea: a path of formal conceptuality  and semantic poetry. The usage of carefully chosen argillaceous material, processed, blended and baked, with or without paints or pigments, is fit for this task. Fiorella Corsi has started by reflecting upon earth as a raw material, a matrix and body, and upon some symbology of her attributes ( mythical and non mythical ), working hard to translate all this in a concrete form. Not in an unitary installation, but in emerged, a piece at the time, a mosaic-like speech. In Art,  the iconographical semantics does such tricks; involving tricks, actually, and revelatory ones, leading the artist, orientating his quest. By penetrating in subconscius matter, some unattended archetypes are to be found. The hieratic and sober seeds that Fiorella Corsi keeps cumulating-like the Cypraea shell, also known as “cauri”, ancient emblem of the Great Mother, or like a seed of date-evocate the germinal  vulva. Their number ( 28 ) is a Jungian lapsus ( 28/29 is the number associated to the cycle of Moon fertility guarded by the ancient goddesses ).Since ancient times, fruits of pomegranates are symbols of the plurality of breasts spreading from the body of Earth, or the body/womb as an oval-shaped totem, all have a very ancient prototype.

The sculptress of shapes has let a dense and significant poetic emerge, stimulating reflections and discourses. And she does it by a delicate and implied irony, along with a lapidary, even stern, dryness, forecasting a modern disenchantment. Gaea is, here, mostly a dismembered body, a removed memory, a metaphor and an admonishment. Painfully wounded, she has shored with her ancient signs in this work of precious alchemy.

*  *  *

Possiamo rivolgerci alla “Teogonia” di Esiodo per introdurci a Gea “dall’ampio seno, solida ed eterna”, generatrice di Titani e Titanesse, Giganti e Ninfe, nonché del genere umano. Ma la possente dea, chiamata anche Madre Terra, che “partorì l’immenso cielo stellato”, le valli e le montagne, le sorgenti e il mare e ogni elemento germinale, ha attraversato i secoli perdendo a poco a poco la sua gloria. Segni inquietanti ci lasciano supporre che come noi – e forse perché tra i tanti figli e figlie partorì anche Mostri ed Erinni – Gea è oggi in naufragio nell’immenso creato. L’ampio seno si frantuma, il ventre diventa simulacro, i frutti si pietrificano, le sue stesse acque l’avvelenano. Eppure Gea permane un archetipo che ci ancóra alla Terra primeva, alla vita in gestazione, a un biocosmo di cui ameremmo designarla ancora rassicurante madre tutelare. Sinché l’arte non ne perderà memoria non saremo del tutto orfani, non cammineremo su qualcosa di indistinto chiamato semplicemente ‘suolo’.
Con una percezione saldamente fisica della astrazione, Fiorella Corsi, scultrice sensibile e ardita, ha scelto il cammino più adatto ad evocare Gea: quello della concettualità formale e della poetica semantica. L’uso della materia argillosa accuratamente scelta, lavorata, mescolata e cotta, con o senza vernici e pigmenti, si addice a questo lavoro. Partita da alcune riflessioni sulla terra come materia prima, matrice e corpo e sulla simbologia dei suoi attributi (mitici e non), Fiorella Corsi si è laboriosamente applicata a renderne la concretezza in un ciclo tematico. Non si tratta di un’istallazione unitaria, ma di una drammaturgia di forme i cui singoli pezzi si complementano.
Questa coerenza tematica è forse emersa poco alla volta, pezzo per pezzo, come un discorso ricomposto a mosaico. In arte, il semantismo iconografico fa di questi scherzi; scherzi coinvolgenti e rivelatori, che guidano l’artista, ne orientano il cammino. D’altronde, quando si penetra nella memoria subconscia delle forme, si profilano archetipi insospettati. I semi che Fiorella Corsi accatasta ieratici e sobri non a caso evocano – come la conchiglia Cypraea o ‘cauri’, antico emblema della Grande Madre, o come il nocciolo del dattero – la vulva germinale. Che ne abbia poi predisposte 28 è un lapsus junghiano (28/29 è il numero associato al ciclo della fertilità lunare presieduto dalle dee antiche). D’altra parte, sin dai tempi arcaici, i frutti di melograno simboleggiano il ventre della Mater Genitrix e le metafore del seno/terra ferito da uno strumento metallico, della pluralità dei seni che protendono dal corpo della Terra o del corpo/ ventre come totem della forma ovale, hanno prototipi di venerabile memoria.
Insomma, la scultrice di forme ha lasciato emergere una poetica densa e significante che suscita riflessioni e fabulazioni. Ma lo fa con delicata e sottesa ironia e, nel contempo, con una lapidaria, anche austera, asciuttezza che annunziano un disincanto tutto moderno. Gea è qui soprattutto corpo smembrato, memoria rimossa, metafora e monito. Dolente e ferita è approdata con segni antichi in questo lavoro di laboriosa alchimia.
[Roma 2001]

Continuare a parlare di Madre Terra e a celebrarne l’archetipo, si deve. Ma non lo si può più fare con gli occhi bendati dalla antica bellezza di Miti oggi in subbuglio. Gea/Terra invia messaggi sulla sua sofferta esistenza nell’umano girone di sfregio, veleni e oblio. La filosofa della scienza Isabelle Stengers ipotizza “l’intrusione di Gaia” come nuovo elemento di emergente avvertimento. Nella odierna sarabanda di banalità, l’arte è uno dei pochi strumenti rimasti per passarne la parola. Lo sa Fiorella Corsi che da tempo si volge con forza poetica, caparbia e attenzione ai simboli di Gea. La Terra ci chiama a testimoni, la Terra ci parla. D’altronde, la Terra siamo noi. Ma non del tutto, e non soltanto. Entità primordiale a se stante, Gea/Gaia è anche ciò che sta a noi come interlocuzione radicale.
[Roma 2009]

Un Altare per Gea. 6

Un Altare per Gea. 6

L’energia della scultura
di Barbara Martusciello

Fiorella Corsi è un’artista dalla storia professionale disseminata da scelte molto determinate, che l’hanno portata negli anni a prediligere la scultura come massima espressione della sua indagine visiva.
Ha conseguito studi filosofici e una specializzazione all’accademia di Belle Arti con il maestro Giulio Turcato. Questo importante legame l’ha direzionata agevolmente verso la pittura; tuttavia dagli anni Novanta il suo lavoro convoglia, in maniera persino intima, sulla tridimensionalità e su una materia – l’argilla – che prevede, per suo stesso attributo, un vero corpo a corpo per animare intrinseci concetti e prendere forma. La Corsi vi affonda le mani, e si lascia coinvolgere fisicamente e poeticamente in questa sorta di lotta che ha qualcosa di rituale, almeno per lei, che ne emerge ogni volta “rinata” – afferma – con una produzione di vibrante veemenza e dalla rara perizia.
Nulla, in questo suo lavoro, è impostato sulla “narrazione”, sulla pedissequa traduzione della realtà e sul registro didascalico; al contrario, si concentra su un’analisi linguistica del segno, dell’origine e del senso più profondo che deriva, sia dalla natura che dalla storia, e dalle diverse culture dell’uomo.
Nelle sculture, parte del ciclo del Naso (1999-2000) – dedicate al personaggio di Pinocchio – il rapporto con la materia ha e palesa una sua forza di gravità; l’intensità ed esemplificazione della vicenda non è “raccontata”, ma trasla nel modulo del cono, metaforico – appunto – del naso di collodiana memoria e nel quale si raccolgono i rimandi alla tragedia dell’essere umano.
La forma si fa poi essenziale, primitiva, diventa metafisica e accoglie spunti sempre nuovi che si intersecano tra loro e a volte si sovrappongono in un continuo fluire di rimandi poetici; è il caso del Ventre di Gea, di Mediterranea, de La Scrittura del Vento, di Pagine di Sabbia, ma anche dei Semi, dei Melograni, dei Piedi alati dell’installazione Le orme del Pensiero.
In questo senso va interpretato anche il più recente e imponente altare Votivo, parte nodale di quella Porta della Bellezza inaugurata a Librino, per la Fondazione Antonio Presti, connessa a Fiumara d’arte. Questo lavoro è ispirato al mito della Dea-Madre che l’artista sente da sempre argomento consono alla sua natura e alla sua ricerca: non a caso, la sua prima mostra è dedicata a Gea (2001). E dunque, il tema è analizzato dalla Corsi intendendolo come divinità che richiama la Terra e che quindi si riferisce a quel topos che l’essere umano sente appartenente da sempre alla sua evoluzione e alla sua storia, più fortemente a quella di genere – femminile – e che riguarda il primigenio.
Tutto il percorso dell’artista – con la terracotta, piuttosto che con cartapesta, ferro o altro materiale plasmabile – prende forza e si sostanzia grazie a una profonda riflessione non mediata. Per questo predilige materiali naturali, sia nella scultura che nella pittura, terre policrome dai colori primari, tele grezze e legni di supporto.
Il vasto territorio analitico, all’interno del quale si muove, è quello ancestrale; da questo spunto, assolutamente meditato e radicato, percorre tutte le diramazioni tematiche e le derive metaforiche ad esso connesse.
La Corsi non è artista da mezze misure, né da analisi parziali, episodiche o strategiche – non a caso, abbiamo detto, ha portato avanti studi filosofici – e con la sua scultura e le installazioni giunge a trattazioni sempre relative a questioni universali, a massimi sistemi: la trasformazione, lo scorrere del tempo, il rapporto tra spirito e materia, le radici antropologiche e le simbologie dell’essere. Qui entra in gioco prima la trasmissione della me- moria e della conoscenza orale, poi della scrittura: questioni di linguaggio, pertanto, legate alle origini della comunicazione e dell’autoaffermazione di una collettività fatta di singoli, ma di cui la Corsi privilegia la donna. Essa è perno, divinità madre o matrigna, Mater Genitrix, dalla quale tutto nasce e torna, seguendo un ciclo che rimanda a quello della Natura e del quale l’argilla e la terracotta nuda sono segnali esemplificativi.
Nella Grande Madre, a cui è dedicato l’altare votivo, rielabora la forma di una delle statuette fittili appartenenti all’area mediterranea, sottraendole la sua fisicità tridimensionale, ma conservandone i contorni arcaici. Fa poi della superficie scultorea una sorta di crosta rocciosa che, come materiale fossile, conserva e rivela concrezioni, insetti, conchiglie: i resti di una sussistenza originaria. Il simbolo si smaterializza per testimoniare – chiosa la stessa artista – “la drammaticità del destino del nostro fragile pianeta”. A questo tema, dal 2001 la Corsi ha dato vita ad una copiosa produzione, tra cui si segnala Il Ventre di Gea: una ricostruzione di osso iliaco incurvato e metamorfico, tanto da acquisire le sembianze di una farfalla, per sempre catturata, dalle ali piegate, perché trafitte da uno stilo di ferro.
La Corsi porta avanti la sua sperimentazione linguistica in modo concreto nelle riflessioni, nella scelta delle forme e nei materiali usati. Cerca e trova, spesso attraverso viaggi, ci dice, “alla scoperta di luoghi da vivere: deserti africani, vecchie miniere dove ritrovo me stessa nelle forme scolpite dal tempo”; il tempo universale, che nelle sue opere si fa contenuto. Come la memoria, che passa dalla conoscenza orale a quella scritta (oggi anche via cyberspazio…). Così, partendo dall’osservazione del segno in natura, ed evocando il racconto di Borges “Il Libro di Sabbia”, nelle opere La Scrittura del Vento e Pagine di Sabbia il segno si smaterializza e diventa accenno, memoria. Lo sottolineava un video, proiettato durante la mostra su una lunetta di mattoni in terracotta che, assorbendo le immagini, dava l’idea della sparizione della traccia. Un libro di terracotta, posizionato a terra, per la lunghezza di circa sette metri, distendeva una varietà di piccoli elementi scultorei: lettere, animali, semi….
L’archetipico è territorio nel quale l’artista si muove con disinvoltura, ma la complessità semantica dei suoi lavori non è priva di una certa ironia che sottende la drammaticità della sorte umana, come dichiarano persino: il Naso malato o il Naso mangiato dalle formiche, l’Uomo Istrice o la Donna Giraffa…, a volte anche i titoli stessi delle opere. Tale ironia non mai debordante e tutto il lavoro, lontano da eccessi o barocchismi, è sostenuto da sensualità plastica rigorosa, austerità formale che tende all’assoluto. L’arte, del resto, non ha questo nel suo dna? Non prevede l’apertura suggerita di un nuovo punto di osservazione sulla realtà, sensibile o metafisica, concreta o più speculativa?
Dall’alto delle sue totemiche messe in scena, o dalla base delle sue pagine, dalla cima dei suoi altari, o più a terra, nel percorso tra acquarelli e piccole incisioni, Fiorella Corsi indica una via: quella dell’analisi di tracce e dei segni di paradiso perduto; quella purezza e quella conoscenza dove la storia ha inizio e mai fine.

Primo bozzetto dell’opera, acquarello su carta cm 100x70

Primo bozzetto dell’opera, acquarello su carta cm 100×70

Un Altare per Gea. 5

Un Altare per Gea. 5

Un Altare per Gea. 7

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Un Altare per Gea. 8

Un Altare per Gea. 8

Un Altare per Gea. 9

Un Altare per Gea. 9

Un Altare per Gea. 10

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Un Altare per Gea. 17

Un Altare per Gea. 17

Un Altare per Gea. 14

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Un Altare per Gea. 13

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Un Altare per Gea. 15

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Un Altare per Gea. 16

Un Altare per Gea. 16

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